Ridere a crepapelle per sovvertire l’ordine costituito. L’Elogio alla Follia di Erasmo da Rotterdam dice molto a riguardo: la risata aggrega il popolo e il comico smaschera con ironia pungente le debolezze dei potenti. Per questo, élite di ogni tempo si sono coalizzate spesso contro lo humour: nel ‘500 il cardinale Borromeo scomunicò i comici e in età vittoriana alle ragazze fu vietato ridere in pubblico.
L’idea che la “risata collettiva” abbia una verve rivoluzionaria è attribuibile alla festività greca del Komos, in cui contadini, schiavi e donne, scesa la notte, sfilavano nei boschi disturbando il sonno del popolo e, inebriati dal vino, ridenti e privi di ogni freno inibitore, manifestavano l’odio verso i regnanti.
Etichettati dagli alti ranghi come “militanti disobbedienti”, i ribelli marciavano per la libertà sfoderando l’arma della risata, come omaggio offerto dal Dio Dionisio. La forza sprigionata dal popolo nei riti dionisiaci minava il potere angosciando gli animi di chi sedeva al trono e la censura inappellabile della festa diventava l’unico modo codardo per risolvere il problema.
Sembra che i tempi moderni raccontino oggi un’altra storia: l’autoironia o il saper far ridere sono gli escamotage gettonati dai leader per raccogliere consensi e la geliofobia di cui soffrivano può dirsi ormai superata. E intanto risata più, risata meno, qualcuno ci casca.
Per approfondimenti: Donata Francescato, Ridere è una cosa seria, Mondadori, 2003.
mercoledì 30 Ottobre 2024
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