Di fronte al complicato scenario climatico globale e alla crescente pressione dell’opinione pubblica, negli ultimi anni la comunità internazionale si è spesso seduta attorno ad un tavolo per discutere, con alterne fortune, la questione del cambiamento climatico.
Il primo vero successo della diplomazia in tal senso è rappresentato dagli Accordi di Rio del 1992, che predispongono una cornice all’interno della quale si propone di convocare apposite conferenze sul clima, le Conferenze delle Parti (COP). All’interno di questo quadro, nel 1997, è emerso il trattato più celebre ed innovativo in materia ambientale: il Protocollo di Kyoto, che ancora oggi pone obblighi ai Paesi industrializzati, responsabili di gran parte delle emissioni di agenti inquinanti dell’ultimo secolo e mezzo.
Ciononostante, con il passare del tempo ed il peggioramento della situazione climatica, nel secondo decennio del Duemila è diventata evidente la necessità di aumentare gli sforzi. Nel dicembre 2015 si è riunita a Parigi la COP 21 per definire un accordo universale e vincolante. Il testo che ne è scaturito sembra effettivamente aver raggiunto, almeno in parte, questo traguardo. Gli Stati si sono infatti impegnati a limitare le proprie emissioni per mantenere il riscaldamento della temperatura globale “ben al di sotto di 2° C” rispetto ai livelli preindustriali. Inoltre, in uno slancio di ottimismo, le parti hanno anche affermato di voler continuare i propri sforzi per raggiungere l’obiettivo di 1,5°C, caldamente consigliato dalla comunità scientifica.
Per ottenere questi risultati, chi ratifica l’accordo sarà obbligato a fissare una soglia-obiettivo di emissioni, limite che non sarà però vincolante dal punto di vista giuridico. L’accordo prevede infatti solo un sistema di name and shame, una sorta di lista della vergogna nella quale verranno inseriti i Paesi che non rispetteranno le proprie promesse. Agli occhi dei critici è proprio questo il punto dolente dell’accordo, che non imporrebbe veri obblighi ai Paesi aderenti.
A complicare ulteriormente la situazione, il nuovo Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha annunciato nel giugno del 2017 di voler ritirare il suo Paese dal trattato, colpevole, a suo avviso, di sfavorire gli interessi economici statunitensi. Stando alla lettera dell’accordo tuttavia, l’uscita non sarebbe un processo veloce, perché esso impone un considerevole lasso di tempo tra la notifica della volontà di recesso – depositata in agosto – e l’abbandono effettivo del trattato, che in questo caso non potrebbe avvenire prima del 2020, anno delle prossime elezioni USA.
Anche se il Presidente Trump non riuscisse nel suo intento, rimane comunque poco da stare allegri. A detta degli esperti infatti, sembra quantomeno dubbio che l’Accordo possa portare ad un deciso cambio di passo nella lotta al cambiamento climatico e che possa scongiurare gli oramai noti scenari apocalittici futuri.
Purtroppo, però, non abbiamo molto altro in cui sperare.
mercoledì 30 Ottobre 2024
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