Negli ultimi anni «Charlie Hebdo» ci ha più volte scandalizzato con le sue vignette irriverenti e blasfeme. Allo scandalo sono sempre seguite polemiche infinite, interrotte solo dai tragici fatti del 7 gennaio 2015, quando il mondo intero si è unito a manifestare la propria solidarietà alla redazione del giornale con il grido «Je suis Charlie».
In quell’occasione tanti si sono elevati a difensori della satira e della libertà di stampa, ma non ci è voluto molto prima che questi stessi si rimangiassero la parola al primo disegno del giornale che urtasse la loro sensibilità. Penso in particolare alla polemica italiana che ha infuriato sui nostri giornali in seguito alla pubblicazione della vignetta sul terremoto che ha raso al suolo Amatrice e altri paesi del centro Italia.
Per nulla intenzionato ad entrare nel merito della polemica, ho cercato di capire come sia possibile una simile ipocrisia e l’ho fatto cercando di chiarire meglio a me stesso che cosa sia la satira e perché essa susciti nelle persone reazioni così contrastanti.
La Corte di Cassazione ha dato una definizione precisa di “satira”: essa, scrivono i giuristi, «è quella manifestazione di pensiero talora di altissimo livello che nei tempi si è addossata il compito di castigare ridendo mores»*. La definizione, perciò, ci dice che la satira è una “manifestazione del pensiero”, ovvero un sottile esercizio della mente, elaborato con uno scopo preciso: migliorare la società in cui viviamo.
È proprio questo il senso di quel “castigare ridendo mores” della definizione, che potremmo tradurre così: criticare gli usi e i costumi, scherzando. La satira, con la sua critica, vuole far riflettere la società su quei comportamenti che si sono consolidati e che ne minano la coesione e l’armonia, affinché essi vengano corretti. Essa ha, quindi, uno scopo etico.
Efficace strumento per raggiungere questo risultato è la risata. Quella della satira è dunque una comicità al servizio di un nobile intento, non una beffa fine a se stessa o uno scherzo di cattivo gusto, fatto con stupidità e cattiveria solo per suscitare ilarità o offendere.
Il riso, il grottesco, l’umorismo macabro ed irrispettoso, l’ironia spesso volgare e, talvolta, disgustosa, sono solamente i mezzi usati da chi fa satira per rendere la critica più efficace; per scuotere le coscienze con maggior forza, rispetto a quanto potrebbe fare, per esempio, un articolo o un pamphlet che usino un linguaggio più composto e rispettoso.
Lo scandalo è proprio quello che la satira vuole suscitare, poiché essa vuole proprio essere uno schiaffo che urti la nostra sensibilità; una doccia fredda che ci risvegli dal torpore dell’abitudine alle ingiustizie del mondo, con lo scopo di spingerci ad agire per sanarle.
Fare satira, in ultima analisi, è un modo di fare filosofia, dove con filosofia si intende “esercitare il pensiero critico per migliorare la realtà”. Un modo di fare filosofia che purtroppo, come si è visto, è molto ingrato e spesso pericoloso.
*Prima sezione penale della Corte di Cassazione, sentenza n. 9246/2006
mercoledì 30 Ottobre 2024
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