Sullo stato del ciclismo italiano
Il movimento ciclistico italiano su strada non se la sta passando molto bene. Ciclisti italiani smarriti, ricambio generazionale mancato, sponsor inesistenti o troppo deboli. Ecco alcune parole-chiave che sembrano tratteggiare i contorni di una crisi profonda (che, a ben vedere, sembra essersi estesa nel biennio 2020-21 anche a sport considerati più “nobili”, come il calcio). E, in fondo, basta guardare i numeri per rendersi conto del vuoto.
Negli ultimi dieci anni solo quattro volte su 57 totali un ciclista italiano è riuscito a piazzarsi sul primo gradino del podio in una delle cinque classiche monumento: tre volte Vincenzo Nibali (una Milano-Sanremo e due Giri di Lombardia) e una volta Alberto Bettiol (Giro delle Fiandre). Considerando che Nibali, ormai, è lo spettro di se stesso, il futuro non è roseo. Eppure, nel primo decennio del secolo, le vittorie nelle prestigiose corse di un giorno erano state quasi venti.
I numeri non migliorano se si considerano i podi nei Grandi Giri, cioè Giro d’Italia, Tour de France e Vuelta a España. Negli ultimi dieci anni sono stati 17 i piazzamenti sul podio (per sette volte sul gradino più alto), su circa 100 totali. Di questi 17 piazzamenti, 11 si devono a Vincenzo Nibali (vale quindi il discorso fatto sopra) e 3 a Fabio Aru (che ha affermato la volontà di ritirarsi dalle corse al termine di quest’anno). Insomma, rimarrebbe solo Damiano Caruso, secondo al Giro d’Italia di quest’anno e comunque prossimo ai 34 anni. Anche in questo caso le prospettive non sono rosee: il movimento giovanile italiano non sembra per ora in grado di sopperire alle lacune lasciate dai vecchi campioni.
Perché queste difficoltà? Perché manca un movimento ciclistico. Cioè: fondi, scuole, squadre, pazienza, capacità di confidare in qualcosa che non sia rotondo e rotoli sull’erba. Sono cinque ingredienti imprescindibili. Mancano squadre italiane di peso a livello internazionale. I giovani ciclisti italiani sono costretti ad andare in squadre estere, dove difficilmente trovano spazio e sono invece costretti a lavorare (spesso sacrificandosi) per corridori già affermati.
Mancano fondi. Per dare vita a una squadra “UCI World Tour” – la prima divisione del ciclismo: le squadre World Tour partecipano di diritto alle corse ciclistiche più importanti – servono milioni di euro. Per esempio, l’anno scorso il budget a disposizione della INEOS Grenadiers (una delle più vincenti squadre World Tour) ha superato i 50 milioni di euro. Difficile che al momento gli sponsor italiani possano fare altrettanto.
Mancano scuole, capacità di fare affidamento sulla bicicletta e un po’ di sana calma. A livello giovanile, in Italia, tutto è calcio. Le scuole di ciclismo – cioè squadre giovanili, non per forza competitive – non esistono. Non si ha pazienza (questo vale un po’ per tutto) di vedere crescere un giovane o una giovane di talento. Non si punta mai sulla bicicletta perché poco attraente e vendibile. E oltremodo faticosa. Il calciatore è ricco, fa le serate fuori e si accompagna a chi vuole. Il ciclista è sfigato, spesso solo o mal accompagnato (cioè da altri come lui), assai poco ricco e festaiolo.
Finché la mentalità sarà questa – calciocentrica, arrivista, aggressivamente imprenditoriale – si può facilmente prevedere un futuro nero per il ciclismo italiano.
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mercoledì 30 Ottobre 2024