Che cosa ci insegnano le risse nello sport
La risposta più breve è niente, le risse non ci insegnano niente, se non che anche gli sportivi, per quanto privilegiati essi siano, peccano dello stesso esacerbato infantilismo che colpisce chiunque decida di alzare le mani per tentare di risolvere un problema. Ma la risposta può (e deve) essere più articolata. Mi spinge a questa riflessione l’ennesimo episodio violento di cui è stato protagonista (in negativo) Draymond Green, cestista dei Golden State Warriors. Partiamo dalla dinamica. Il cronometro sul tabellone segna poco più di dieci minuti alla fine del primo quarto. In pratica non si è cominciato a giocare nemmeno da due minuti. Un compagno di squadra di Green e un avversario si allacciano durante una ripartenza e iniziano a strattonarsi. Si crea un capannello di giocatori delle rispettive squadre, sul quale Draymond decide di gettarsi, afferrando il collo di un avversario e trascinandolo per diversi secondi. Risultato? Espulso dalla partita e sospeso per cinque giornate.
Legittimamente, una persona potrebbe chiedersi: perché uno sportivo come Green che guadagna 25 milioni di dollari l’anno deve continuare a rovinare la propria reputazione (e non solo quella) in questo modo, dimostrando di non saper gestire in alcun modo la propria rabbia? E il discorso vale per Draymond Green come per altri centinaia di giocatori, anche di sport diversi: quante volte nel campionato di Serie A ci capita di vedere alterchi più o meno violenti? Quasi ogni domenica. Perché persone privilegiate, senza alcun problema (apparente) per la testa se non quello di prendere a calci nel modo giusto un pallone o di indovinare il tempo di un rimbalzo, devono essere protagoniste di risse spesso violente?
Per trovare una risposta bisogna necessariamente affidarsi alla scienza e a quello che di volta in volta hanno suggerito studi biologici e psicologici. Secondo la biologia, l’aggressività è insita nella natura umana e lo sport non sarebbe altro che una valvola di sfogo: non deve quindi sorprendere se capitano episodi violenti. La psicologia ha cercato invece di porre l’accento sulla frustrazione dei giocatori come miccia in grado di far esplodere una rissa. Una chiamata arbitrale non condivisa, una giocata sbagliata, un infortunio: sono tutti elementi in grado di generare frustrazione e quindi violenza. Ma, per tornare all’episodio che ha dato il via a questa riflessione, quale tipo di frustrazione può provare un giocatore dopo nemmeno due minuti di gioco? Forse qualcosa che Draymond Green si trascinava dietro da più tempo.
In qualunque modo la si giri, la violenza nello sport appare ingiustificabile. Specie se si considerano gli strumenti che gli atleti hanno a disposizione per il proprio benessere psicologico. La frustrazione o l’aggressività devono trovare uno sbocco pacifico e diventare semmai combustibile in grado di alimentare la prestazione sportiva, senza rovinarla irrimediabilmente. Del resto, chi pratica sport ad alti livelli diventa – volente o nolente – un modello per i più giovani e si trova quindi investito di una responsabilità maggiore. In un’epoca di guerre e di conflitti in ogni dove, lo sport deve rimanere un luogo sano e sereno.
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giovedì 30 Gennaio 2025