La ragazza delle tazzine

Viviamo circondati dalla frenesia d’un mondo che pretende di non fermarsi mai. Tutto scorre con una tale velocità da farci spesso dimenticare delle piccole cose della vita che, se guardate con occhi diversi, potrebbero essere motivo di gioia o addirittura felicità. Quegli stessi sentimenti a volte così lontani da sembrare irraggiungibili, ma che con pazienza e volontà possono essere riassaporati e riconquistati, come suggerisce il racconto che segue.

Contava una ad una le tazzine riposte poco prima nella credenza: non si capacitava di come mai potessero essere un numero dispari, in casa d’una che fra i numeri amava solo quelli perfettamente divisibili a metà. Lei che, come i pari, divisa lo era stata tante volte.
Aveva dormito sul divano per almeno un anno e spesso si era scordata di aprire le finestre per cambiare l’aria. «È proprio così che ci si dimentica del sole», si ripeteva durante quei rari momenti in cui si obbligava a percorrere il vialetto per controllare se ci fosse posta. Non avere contatti con il mondo esterno l’aveva resa ancora più aliena su di un pianeta fatto di spaventose creature. L’andamento della sua esistenza era dettato da una ferrea scelta: per un qualche motivo, ad un certo punto, aveva deciso di annullarsi pensando che, se i suoi cari erano morti, allora anche lei avrebbe meritato di morire anche solo un poco. E non c’è peggior morte di quella che ci si autoinfligge, nella speranza che il dolore faccia meno male.

Uno spazio senza tempo il suo, fatto di pensieri negati o allontanati e di vuoti riempiti con cibo e televisione. Un televisore diventato silenzioso compagno di sventure che un giorno finalmente aveva smesso di funzionare, quasi a volerle suggerire di alzarsi e provare ad uscire da quel luogo sicuro che era sempre stata casa sua.

Era primavera, o meglio, era di nuovo primavera, perché erano trascorsi ormai trecentosessantacinque giorni dalla sua prima notte su quel freddo divano in pelle.
L’aria che si respira quando i primi fiori iniziano a sbocciare non ha eguali. Quell’anno, tuttavia, quella stessa aria aveva un profumo ancor più dolce e delicato: sapeva d’una libertà che, a poco a poco, sarebbe stata riconquistata e mai più abbandonata. Superato il cancelletto del suo giardino ed affinato l’udito, fra il rumore delle auto e delle persone, aveva già iniziato a sentire il canto degli uccellini, pronti a riaccoglierla nel mondo. Poco lontano dalla sua abitazione, aveva potuto finalmente riassaporare il gusto d’un caffè preparato con maestria ed apprezzare la gioia di chi ancora sapeva sorridere. «Chissà perché non te la insegnano a scuola», si chiese ad alta voce mentre un uomo seduto poco più in là le domandava a cosa si stesse riferendo. «La felicità, perché non te la insegnano a scuola?», ribatté infastidita.

«Nessuno ti può imporre come guardare il mondo. Pur fissando la medesima cosa ne potremmo infatti vedere due differenti. La felicità non si può insegnare: bisogna solo esercitarsi ad affinare lo sguardo».

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lunedì 30 Dicembre 2024