La musica live è classista?

Una vita senza concerti è una vita triste. A prescindere dalla costanza, dall’intensità e dalla competenza con cui si ascolta musica, un concerto è sempre, per chiunque, un’esperienza indimenticabile. Principalmente perché ci si sente parte di qualcosa, cioè perché si condividono impressioni ed emozioni con decine, con centinaia o con decine di migliaia di persone. Le vibrazioni del basso, i colpi della grancassa, gli acuti della voce: arrivano nello stomaco di tutto il pubblico, nessuno escluso. E percepire tutti insieme la stessa scossa nello stesso momento è un tatuaggio indelebile.

Prendiamo Bruce Springsteen. Il Boss ha instaurato un rapporto coi propri fan come pochi altri artisti al mondo sono riusciti a fare, e lo ha fatto proprio grazie alle sue esibizioni dal vivo. Si gettava sul pubblico lasciandosi trasportare dalla marea di mani tese verso il cielo, beveva birra dal bicchiere di plastica che qualche sconosciuto gli allungava, sollevava le persone oltre la transenna e le faceva salire sul palco per cantare e ballare insieme a lui e al resto della E Street Band, eccetera, eccetera, eccetera. Andare a un concerto di Bruce ti cambia la vita.

Eppure, anche un mostro sacro del live come lui comincia ad avere qualche problema. Al di là delle normalissime difficoltà legate all’età – impensabile per un quasi settantaquattrenne fare ancora quattro ore di concerto con la stessa energia di venti, trenta o quaranta anni fa – il Boss deve fare i conti con le recenti, assurde dinamiche del settore dell’intrattenimento dal vivo: speculazioni, location inadatte (ma economicamente convenienti per chi organizza) e, soprattutto, biglietti a cifre folli. Bruce Springsteen è da sempre l’eroe del popolo, l’umile ragazzo del New Jersey che ce l’ha fatta, il vagabondo che con l’iconico strofinaccio rosso infilato nella tasca dei suoi blue jeans ha insegnato a sognare ai tramps like him, ai nomadi come lui. Il fatto che oggi andarlo a sentire richieda uno sforzo economico notevole stride terribilmente con la sua storia e con gli ideali che ha trasformato in canzoni.

Il problema è serio a tal punto che la storica fanzine (una rivista amatoriale prodotta dai fan) “Backstreets” ha chiuso i battenti come segno di protesta. “Backstreet” era la più grande community online di Springsteen – più di 167mila iscritti – attiva fin dai primi anni di carriera del Boss. L’addio è arrivato a inizio 2023, citando dolorosamente Nebraska: «For a little while, sir, we had us some fun».

«Ci siamo semplicemente resi conto che non saremmo stati in grado di coprire questo tour con la determinazione e la motivazione con cui abbiamo operato ininterrottamente dal 1980 […]. Non possiamo più permetterci i suoi concerti, molti fan (e nostri lettori) non possono più permettersi i suoi concerti e, di conseguenza, buona parte del pubblico ha perso interesse» ha spiegato il caporedattore Christopher Phillips.

Il caso di Springsteen è, purtroppo, solo uno dei tanti. I concerti dovrebbero essere accessibili, democratici, non appannaggio di pochi facoltosi. Costringere i fan ad allontanarsi a malincuore dagli artisti per mere questioni finanziarie è una discriminazione che poco si addice a un’arte universale come la musica.

Cultura
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giovedì 21 Novembre 2024