Intervista a Paolo Rumiz: “Canto per Europa”, la donna migrante che rappresenta il volto del nostro continente

© Adolfo Frediani

È di Europa, non dell’Europa, che dobbiamo parlare. Europa che, nel mito, era una principessa venuta dall’Oriente, e che oggi si riflette negli occhi di una giovane immigrata siriana. La storia del nostro continente è una storia di immigrazione declinata al femminile. Lo racconta Paolo Rumiz, scrittore e viaggiatore triestino, nel suo libro “Canto per Europa” (Feltrinelli, 2021), da cui prende le mosse il reading musicale che questa sera – giovedì 21 agosto – alle 20.45, nella piazza di Borgo Valsugana, aprirà l’Agosto Degasperiano 2022 – Custodi del fuoco.

Rumiz, come nasce l’idea di un “Canto per Europa”?

Tutto è cominciato dall’impressione forte che mi hanno fatto le migranti – più che i migranti – nei porti italiani. C’è un episodio particolare da cui è scaturita l’idea di “Canto per Europa”. Nell’estate 2016, a Porto Empedocle, è sbarcata una grande nave di soccorso. Gli uomini e le donne sono stati separati, e le donne sono state fatte sedere su un telo blu. Si sono sedute in un cerchio, e mi è sembrato che così riproducessero la bandiera europea. In quel momento una donna ha cominciato a cantare l’agonia per l’abbandono della sua terra natìa e la speranza dell’accoglienza in terra europea. Ho pensato che quella voce rappresentasse la storia di un continente in cui per millenni la popolazione era stata composta perlopiù da migranti. Questa creatura aveva un viso che rappresentava un enigma: da una parte la maternità, dall’altra la decisione e la determinazione. Queste, per me, sono le due caratteristiche principali del sesso femminile, che considero il sesso forte.

 E poi?

La Brexit è stato un altro elemento scatenante per la nascita di “Canto per Europa”. Un marinaio che recitava Omero a memoria mi chiamò nella primavera del 2017 e mi disse “Guarda che l’Inghilterra sta uscendo dall’Europa e non si rende conto che sta sputando sulla propria madre”. Usò proprio queste parole. Mi chiese di fare un viaggio partendo dall’Oriente per ricostruire la storia del continente. In quel momento mi trovavo in Libano, dove stavo reclutando dei giovani per la European Spirit of Youth Orchestra, che mentre saremo a Borgo, giovedì 21 luglio, si esibirà ad Arquà Petrarca. Questa doppia folgorazione mi ha portato a partire con questo marinaio assieme ad altri amici. L’antichità della barca su cui viaggiavano, unita alla diversa provenienza delle persone a bordo, che parlavano diverse lingue, faceva sì che il discorso tornasse sempre sull’Europa. Così ho scritto questo libro tentando di rileggere il mito, come se si dipanasse oggi e come se, anche adesso, Europa cercasse disperatamente il suo nome, un nome che ha smarrito.

Come si può essere custodi del fuoco dell’ideale europeo, per citare il tema dell’Agosto Degasperiano di quest’anno?

È fondamentale togliere l’articolo all’Europa, chiamandola Europa. Solo così possiamo personificarla e narrarla nella sua dimensione femminile, sottraendola a un’idea bellicistica tipicamente maschile. Il nostro ruolo, in Ucraina, avrebbe dovuto essere molto più attivo sul fronte diplomatico. Non da questi mesi, ma già a partire dal 2014. Sono stato in Ucraina diverse volte, ma la mia prima visita in questo Paese è avvenuta nel 1995: già allora covava un forte nazionalismo etnico incompatibile con la presenza di persone di lingua russa. Si capiva che l’idea di purezza nazionale avrebbe portato a uno spargimento di sangue. Purtroppo, a partire dal 1991, con la guerra dei Balcani, abbiamo accettato la logica dei belligeranti, illudendoci che separare i serbi dai croati secondo un discorso cantonale – la Serbia ai serbi, la Croazia ai croati e ciò che rimaneva ai bosniaci – avrebbe funzionato. In realtà ha creato le premesse di una guerra che non è mai veramente finita. Non ne usciremo mai se non ci accorgeremo della pluralità che abita il nostro continente. Un minestrone che va cotto con lentezza e con pazienza, senza innalzare muri. Un grande esempio, per me, sono i monaci benedettini, che un secolo dopo il crollo dell’Impero romano hanno tenuto duro e hanno costruito una rete di monasteri – che ho raccontato ne “Il filo infinito” – che ha ridato senso alla parola Europa. Amo Europa, quella donna arrivata sulle nostre coste millenni fa, che ho rivisto tra le donne siriane a Porto Empedocle. Finché non ci decideremo a vederla così, non avremo mai la forza di raccontarla ai nostri figli in modo che essi possano amarla e averne cura.

Ai Balcani ha dedicato molti dei suoi libri. Solo pochi giorni fa ricorreva l’anniversario del genocidio di Srebrenica. Spesso poi nell’ultimo periodo si è affermato che la guerra in Ucraina sia stata la prima guerra europea dopo la Seconda guerra mondiale. Ci siamo dimenticati i Balcani? In che modo considerarli Europa potrebbe cambiare la nostra coscienza europea?

I Balcani sono una lezione che abbiamo rimosso, al punto di arrivare a dire che quella in Ucraina è la prima guerra sul continente europeo dopo la Seconda guerra mondiale. Non è vero poi, come si dice, che gli ucraini emigrano in Europa: l’Ucraina è Europa. C’è un sacco di Europa al di fuori dell’Unione Europea. Avremmo dovuto avvicinarci a queste zone con un rispetto culturale maggiore, e anche con una protezione militare che non fosse solo quella americana.

Cultura
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domenica 8 Settembre 2024