Non è un gioco: i diritti violati lungo la rotta balcanica
No, non è un gioco. Anche se viene chiamato The Game, percorrere i Balcani per entrare nell’Unione Europea è tutto fuorché un divertimento. Ce ne accorgiamo in questi giorni quando apriamo un giornale o guardiamo un Tg, ma anche quando scrolliamo la bacheca di Facebook. L’attraversamento della rotta balcanica, infatti, è tornato agli “onori” della cronaca quando, il 23 dicembre, un incendio ha distrutto il campo profughi di Lipa, che era appena stato sgomberato.
Lipa si trova nel nord ovest della Bosnia Erzegovina, nel cantone dell’Una-Sana. Il campo era stato costruito nella primavera del 2020 per affrontare l’emergenza Covid. Vi vivevano, in condizioni estremamente precarie, circa 1300 persone. Ora gli ospiti del campo sono accampati nei boschi e in ciò che rimane di Lipa, dove nel frattempo l’esercito ha costruito alcune tende. «Perché siamo sottoposti a trattamenti così disumani?» s’interroga il 30enne afgano M’zia Jafari. La testimonianza di M’zia è stata raccolta dalla rete “RiVolti ai Balcani”, nata nel giugno del 2020 dalla collaborazione di molte realtà che hanno deciso di denunciare una situazione che si protrae ormai da anni. Le immagini che vediamo sui giornali e nei Tg, e che scorgiamo distrattamente mentre guardiamo Facebook, non sono nuove.
«Dall’8 settembre 2015 – si legge nel report “La rotta balcanica. I migranti senza diritti nel cuore dell’Europa”, che “RiVolti ai Balcani” ha pubblicato nel giugno del 2020 – centinaia di migliaia di persone, prevalentemente provenienti da Siria, Iraq e Afghanistan, sono arrivate in Europa attraversando i Paesi balcanici e influendo sulla morfologia e sui confini di questi territori». È in particolare dalla fine del 2017 che la rotta balcanica ha cominciato a interessare la Bosnia Erzegovina, terra affascinante e complicata, che ancora convive con il pesante lascito della guerra degli anni Novanta. Un Paese che ancora è attraversato da consistenti violazioni dei diritti umani, radicate anche nella sua costituzione, approvata nel 1995 con gli accordi di Dayton. Nessun migrante vorrebbe restare in Bosnia. Per loro è solo una terra di passaggio. Dopo la Bosnia, il percorso prevede Croazia, Slovenia e Italia. E da lì, se si è fortunati, si approda in Germania, in Francia o in Nord Europa.
Fermarsi in Bosnia significa interrompere per un attimo The Game. Perché devi riprendere le forze, oppure semplicemente perché stai attendendo i soldi che la tua famiglia t’invia per continuare il “gioco”. Se di Game vogliamo parlare, forse si tratta di un flipper, dove la traiettoria della pallina è ostacolata dalle protuberanze presenti sulla superficie di gioco e dove non è raro che la pallina venga respinta al punto di partenza. I migranti che attraversano la Bosnia percorrono boschi e campi minati in tutti i sensi: anche letteralmente. Quando poi arrivano al confine con la Croazia vengono rispediti in Bosnia con la forza. Il termine inglese rende molto bene il concetto: si tratta di pushback. Non solo vengono rispediti indietro, ma vengono anche depredate di tutto ciò che hanno: i soldi per il viaggio, gli oggetti che custodiscono gelosamente e i cellulari che gli permettono di tenersi in contatto con la propria famiglia. E non solo vengono depredati: spesso vengono anche picchiati. «Dobbiamo fermarli per proteggere i nostri confini», ha confessato un poliziotto croato a Nello Scavo, inviato per “Avvenire”. «Sono gli ordini – ha concluso -. E poi ce lo chiede l’Europa».
Per approfondire:
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“La rotta balcanica. I migranti senza diritti nel cuore dell’Europa”, RiVolti ai Balcani, giugno 2020.
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“Black Book of Pushbacks”, Border Violence Monitoring Network, dicembre 2020
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domenica 22 Dicembre 2024