Sex Work, intervista alla giornalista Eleonora Numico

Foto Udu Trento – Conferenza sul sex work in Italia, a che punto siamo?

“Sex work” potrebbe essere tradotto in italiano come “lavoro del sesso”, ma questa formula – con grande probabilità – non rende l’idea di cosa sia effettivamente: è connesso al sesso sotto molteplici aspetti e viene esercitato nelle modalità più svariate. Eleonora Numico è una giornalista con molte pubblicazioni a tema, di seguito potete trovare un’intervista con lei, nella quale si parla proprio di sex work: uno degli argomenti tra i più bistrattati e meno discussi nel mondo dell’informazione.

Quanto credi che possa essere rilevante il mondo del giornalismo nel parlare di sex work e quali dovrebbero essere le modalità più corrette per farlo?

Faccio questo lavoro perché credo sia importante parlare di alcuni argomenti su più livelli, non solo per il sex work. A livello giornalistico, ma non solo. È importante che se ne parli in ogni contesto: che sia con gli amici o – con i giusti mezzi – in famiglia, compatibilmente con tutte quelle che sono le barriere culturali e sociali del momento. Questi ostacoli però con un lavoro continuo andranno abbattendosi, per cui è importante parlarne. Ho realizzato una raccolta di tutta la rassegna stampa dei principali quotidiani nazionali e negli ultimi due mesi la parola “sex work” non è mai presente. I giornali non sono la prima fonte di informazione, ma sono comunque una delle più importanti e sono quantomeno lo specchio di una società. Che questa parola non venga nominata è un problema.

Come si sono svolte le tue indagini? Per quanto riguarda poi i risultati?

Sono partita da un punto di vista “ribaltato”, il mio interesse è stato in primis per i clienti. Si può usufruire del sex work in vari modi, ultimamente anche online. Ho intervistato clienti pre-pandemia e già in quel momento era preponderante – ma senza avere numeri certi, non parlarne vuol dire non avere statistiche – la componente digitale. In seguito alla pandemia l’utilizzo di siti internet è cresciuto, c’è una tendenza nei clienti a contattare chi fa sex work mediante piattaforme web, che rappresentano una garanzia dal punto di vista igienico e sanitario. Chi fa sex work in altre modalità – in strada – è percepito come “sporco”. La responsabilità è dell’informazione, il fatto che si parli di “prostituzione” inquadrando il tutto in un contesto di tratta, di degrado e vittime rende l’idea del sex work distorta.

A proposito di utilizzo di siti, scrivevi qualche anno fa per l’Espresso riguardo a Escort Advisor. Cosa c’è di buono, di sbagliato? Come la pensi?

Dipende da cosa s’intende per “buono”. Credo che per ogni sex worker passare tramite questa piattaforma – che è effettivamente una vetrina – garantisca più controllo, consente di filtrare i propri clienti. In un contesto legislativo impotente c’è di buono questo: una barriera protettiva. Leggere vere e proprie recensioni risulta “strano”, in realtà quel che c’è di sorprendente è che tra tutti i clienti alcuni avevano un’idea molto maschilista e patriarcale della donna come oggetto del piacere, mentre altri avevano chiara l’idea del concetto di sex-work, sapevano di recensire un servizio. È importante, e non tutti riescono in maniera automatica. Si parla di un servizio, non di una persona.

Qual è il problema del sex work in Italia? Come si può sdoganare il tabù?

Il primo problema è quello della coscienza comune. Va riconosciuta l’esistenza di un lavoro che fanno 120 mila persone circa in Italia. C’è però una base: i nostri tabù sulla sessualità e il nostro stato conservatore e cattolico. Il problema è ignorare l’esistenza di un fenomeno che esiste e che, essendo così ampio, – con una serie di eredità culturali non sempre positive – se non emerge è difficile che sia normato. Il prendere consapevolezza e riconoscere diritti alle persone sono modalità per dire “io esisto”. Faccio un esempio: durante il primo lockdown, per la mia partita IVA, ho avuto la possibilità di richiedere un’indennità come ogni lavoratore che ha visto la propria attività sospesa. Da sex worker non sarebbe stato così. Riconoscere la professione ci consente di distinguere sfruttamento, tratta, chi è forzato da chi sceglie – in maniera autonoma – di farlo, nelle modalità che preferisce. A queste persone vanno date voci, nomi e diritti, vanno tutelate: è importante che se ne parli. Non dovrebbe esserci vergogna nell’essere un sex worker.

Approfondimenti
Lascia un commento

I commenti sono moderati. Vi chiediamo cortesemente di non postare link pubblicitari e di non fare alcun tipo di spam.

Invia commento

Twitter:

sabato 21 Dicembre 2024