Ira
“Cantami, o diva, del Pelide Achille l’ira funesta”: comincia così l’Iliade, da qui parte la narrazione della guerra di Troia. Anzi, se si vuole essere più precisi, la prima parola in assoluto è ménin, accusativo di ménis, che in greco indica una rabbia divina.
Senza questa collera di Achille, che dà inizio ufficialmente alla letteratura occidentale, chissà quanto avremmo saputo delle battaglie tra Achei e Troiani: probabilmente anche il talento di Omero ci sarebbe rimasto nascosto. Mi è quindi impossibile condannare in toto questo stato d’animo, che ci ha permesso di avere accesso a una buona dose di cultura.
Mi consola il fatto di essere solo uno dei tanti, nel corso degli ultimi millenni, a non saper come giudicare l’ira. Se infatti la reazione istintiva sarebbe quella di considerarla estremamente negativa, non mancano gli esempi di chi la considera a volte giusta e, addirittura, necessaria.
Già Platone si era posto il problema, nel quinto secolo avanti Cristo. Nel mito della biga alata, l’anima umana è trainata da due cavalli: il destriero bianco è l’anima irascibile ed esprime forza di volontà e coraggio, mentre quello nero rappresenta l’ira furiosa, da evitare. È chiaro quindi come la rabbia possa avere due facce molto diverse.
Anche nel Cristianesimo il rapporto con questo sentimento si rivela problematico: se da un lato esso è visto come estremamente grave, tanto da dover essere considerato uno dei sette peccati capitali, dall’altra è descritto a volte come una reazione quasi santa. Nella Bibbia non sono rari i riferimenti a un Dio imbestialito con il popolo peccatore, come nel caso della corruzione di Sodoma e Gomorra. Anche nel Vangelo capita di trovare Gesù adirato, ad esempio quando scaccia i mercanti dal tempio: sono però reazioni pienamente giustificate, perché motivate dall’amore del Signore per il suo popolo.
A condannare l’ira resta il filosofo Nietzsche, che si inserisce nel dibattito sostenendo che sia un sentimento tipico proprio dei cristiani: questi la rivolgerebbero verso se stessi per la loro tendenza a peccare e per l’incapacità di seguire fedelmente la morale. Una reazione inevitabile per i seguaci di Cristo che porta, secondo il filosofo tedesco, a essere costantemente insoddisfatti e a rovinarsi la vita.
In ogni caso Dante, se dovesse riscrivere la Divina Commedia, dovrebbe stare molto più attento: buona parte degli iracondi, ora immersi nel fango dello Stige, potrebbe ricevere un’assoluzione in un processo popolare: difficile l’ingresso in paradiso, ma con un buon avvocato il purgatorio sarebbe assicurato.
Approfondimenti, I peccati capitali
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