Il bambino con il sandwich vuoto

Quanti di noi conoscono davvero la parola “resilienza”? Termine del quale spesso si abusa,  può essere utilizzato sia per descrivere un oggetto in grado di resistere agli urti senza spezzarsi ma è anche applicabile, in maniera figurata, a persone con le medesime competenze (in quest’ultimo caso, psicologiche).

Secondo la psicologia, la resilienza sarebbe una qualità che non tutti sperimentiamo nel corso delle nostre esistenze: tutto sta nel modo in cui la nostra vita si dispiega. Se si è abbastanza fortunati da non dover fare fronte a terribili avversità, non si potrà mai sapere quanto si è resilienti. Solo subendo forti carichi di stress ed incappando in difficoltà lo si potrà scoprire.

Il primo studioso a fare esperimenti su questo fronte fu il professore di psicologia Norman Garmezy che, nel corso della sua carriera, si dedicò allo studio di migliaia di casi, visitando svariate scuole americane. Fra i tanti bambini che ebbe la possibilità di conoscere, ve ne fu uno in particolare che lo colpì: un ragazzino di soli nove anni, con una madre alcolizzata ed un padre assente. Ogni giorno quel bambino entrava a scuola accompagnato da un immancabile sorriso, portando con sé nello zainetto un sandwich fatto di due pezzi di pane senza nulla in mezzo: un panino vuoto. Una merenda che lui stesso si preparava, da una parte perché la madre non era in grado di badare in alcun modo a lui e dall’altra perché a casa non vi era altro cibo disponibile. Garmezy dichiarò che dietro al comportamento del ragazzino si celavano il desiderio di nascondere l’inettitudine della madre e quello di far sì che gli altri non provassero pena per lui. Quel bimbo prese parte (insieme ad altri) ad un gruppo di studio che Garmezy sostenne dimostrarsi d’incredibile successo: tutti i suoi componenti si mostrarono infatti in grado di fare fronte in maniera eccelsa a circostanze terribilmente sfavorevoli, e di rivelarsi quindi sorprendentemente «resilienti».

George Bonanno, attualmente professore di psicologia clinica presso il “Teachers College, Columbia University”, tiene un corso su «lutto e traumi». Durante i suoi quasi venticinque anni di carriera, si è proposto di spiegare quanto Garmezy lasciò insoluto: come mai alcuni di noi sono più resilienti di altri?

Tutti gli esseri umani, sostiene Bonanno, possiedono il medesimo «sistema fondamentale di reazione allo stress» che viene utilizzato più o meno di frequente. Quando però si tratta di mettere in campo la resilienza, alcuni riescono ad utilizzare questo «sistema di reazione» molto meglio ed in maniera più efficace di altri. Questo perché, secondo il docente, uno degli elementi centrali della resilienza sarebbe la «percezione»: come classificheremmo alcuni eventi vissuti? Li etichetteremmo come «traumatici» o «opportunità» per crescere ed imparare? È infatti la percezione di quanto vissuto a stabilire il nostro livello di resilienza, e non il carico negativo dell’evento in sé: «A renderci più o meno vulnerabili, è il nostro modo di (ri)pensare gli eventi». Anni di ricerche mostrano oggi come la resilienza sia un insieme di competenze psicologiche che, seppur non possedute a priori, possono essere apprese ed utilizzate in un secondo momento, cambiando la propria «percezione».

Tutti noi, quindi, accada quel che accada, possiamo all’occorrenza diventare quel bambino con il sandwich vuoto, convertendo i momenti bui in costruttivi spunti di crescita e fortificazione personale.

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mercoledì 5 Febbraio 2025