Il pianto delle piante
Sulla sensibilità e intelligenza delle piante girano molte leggende e notizie allegramente mischiate, a beneficio di un pubblico impaziente di attribuire a chicchessia le proprie discutibili caratteristiche.
Il primo a sostenere che le piante avessero una sensibilità di tipo umano fu Cleve
Backster che negli anni 60 utilizzò il poligrafo, la famigerata macchina della verità, per captare l’attività elettrodermica delle foglie di una Dracena. Dai suoi esperimenti trasse la convinzione che le piante erano in grado di percepire addirittura minacce potenziali e riconoscere chi aveva commesso violenze nei confronti di un altro essere vivente.
Più recentemente IKEA ha pubblicizzato un suo esperimento in cui due piante identiche
erano sottoposte a opposti trattamenti emotivi. Al termine la pianta maltrattata era in uno
stato pietoso, quella apprezzata cresceva florida. In mezzo a questi due eventi, di cui la
comunità scientifica non ha confermato i risultati, una pletora di ipotesi, tra cui la
seducente teoria che la musica influisse beneficamente su salute e crescita.
Per vederci più chiaro mi sono deciso a tentare personalmente qualche esperimento. Ho
acquistato tre piantine di Mimosa Pudica, quelle capaci di chiudere le foglie in caso di
pericolo, con l’intenzione di collegarle a un oscilloscopio e registrare i segnali elettrici
prodotti dalle loro reazioni. Le ho chiamate Qui, Quo, Qua e ho commesso il primo errore,
poi ho atteso che si ambientassero nei nuovi vasi e l’affezione si è completata.
L’esperimento che avevo intenzione di ripetere era quello dell’omicidio: bruciare Qui
davanti a Quo, collegato allo strumento, per verificare la sua risposta. Un primo problema è stato che non mi andava di apparire a Quo come un violento, né mi sentivo capace di bruciare Qui. Ho convocato allora l’amico M, un ingegnere positivista che non si sarebbe fatto scrupolo a impersonare l’assassino. Arrivato il momento del test ho cercato di collegare la sonda alla piantina. Subito le foglioline si sono chiuse e il rametto che le sosteneva si è ammosciato implorando pietà. Sembrava piangesse per la sorte del fratello e sebbene conoscessi perfettamente la fisiologia di quella reazione mi sono lasciato commuovere, con buona pace di Hobbes e di tutti i suoi compari meccanicisti. Ho congedato M e rinunciato a ulteriori esperimenti.
Su google scholar ho trovato in seguito diversi articoli sul tema ma nessuno che
attribuisse alle piante la capacità di provare dolore. Mentre in un organismo animale esso ha l’importante funzione di stimolare la fuga, in uno vegetale sarebbe solo un’inutile fonte di stress, e la natura non commette di questi errori.
Nel frattempo Qui, Quo, Qua vegetano sul davanzale della mia finestra, alternando
chiusura e apertura delle foglie secondo il nostro stesso ritmo circadiano. Sembrano
anche troppo soddisfatti. Che mi abbiano manipolato come si presume facciano le piante
di peperoncino? Questa però è tutta un’altra storia.
Geniale. Ho letto tutto d’un fiato! Complimenti